5 febbraio 2025
(intervista de La Stampa al Ministro Tommaso Foti)
Tommaso Foti è nel suo ufficio di Largo Chigi. Due mesi fa ha accettato di sostituire Raffaele Fitto nell'incarico più complicato del governo Meloni: i rapporti con l'Europa e la gestione del Recovery Plan. Ha appena ricevuto un gruppo di ragazzi che gli chiedono se c'è da essere preoccupati per le mosse di Donald Trump.
Ministro, la spesa complessiva del PNRR viaggia ancora a rilento, fin qui abbiamo speso una sessantina di miliardi sui quasi duecento a disposizione. A che punto siamo?
«Una premessa indispensabile: il PNRR è la somma di due cose: c'è da far avanzare la spesa, ma anche da attuare le riforme, per le quali dopo attente verifiche ci sono state concesse sei rate su dieci. La settima, ora sottoposta alla valutazione della Commissione europea, ha ben 67 obiettivi. Una volta conclusa, avremo altri 18 miliardi. Di qui al 2026 abbiamo da aggiudicarci complessivamente altri 54 miliardi».
E dunque?
«La mia premessa serve a dire che il PNRR non è una passeggiata di salute. Se anziché discutere sempre dei dati in maniera polemica si potesse fare un discorso pacato sugli obiettivi, noi gli obiettivi li abbiamo ben chiari. Per questo, come stabilito dai regolamenti europei, prevediamo una nuova revisione del Piano e la porteremo in Parlamento».
Ci può anticipare che tipo di modifiche e quando?
«Se lo facessi, verrei meno al rispetto dovuto al Parlamento. Dovrebbe essere pronta ai primi di marzo, poi le Camere decideranno quando discuterne. Ci sarà la revisione di alcuni investimenti a favore di altri. Su alcuni interventi dobbiamo registrare cause di forza maggiore che ci costringono a fare delle scelte. Le faccio un esempio: nella galleria del Valico dei Giovi è stato trovato del gas. Non posso essere io a risolvere il problema in poche ore. In questo come in altri casi i tempi di realizzazione vanno rivisti».
Da tempo aleggia l'ipotesi di chiedere alla Commissione europea di rivedere la scadenza del 2026. Accadrà?
«Se si inizia a parlare di proroghe, non possiamo focalizzarci sulle scadenze del piano. Io penso invece che oggi l'obiettivo del 2026 vada tenuto fermo. Ciò detto, non sono il mago Otelma e non posso prevedere cosa capiterà nei prossimi mesi, ad esempio se altri Paesi, che pure hanno chiesto meno fondi di noi, chiederanno di rivedere le scadenze. Di certo occorre avere un occhio di riguardo verso le risorse che abbiamo ricevuto a fondo perduto, circa 72 miliardi: nessuno deve poter dire che l'Italia è rimasta con le mani in mano su soldi frutto di debito comune».
C'è qualche misura concreta che state realizzando per accelerare la spesa?
«Vedremo presto i risultati dell'ultimo decreto del Tesoro che permette agli enti locali anticipazione di spesa fino al novanta per cento».
L'unico Paese che ha ricevuto una mole di finanziamenti pari all'Italia è la Spagna, il cui tasso di crescita nel 2024 è quasi sei volte l'Italia. Stanno sfruttando l'occasione meglio di noi?
«Gli spagnoli hanno puntato molto sulla realizzazione di strumenti finanziari che permetteranno loro di andare oltre la scadenza del 2026. La cosiddetta messa a terra del piano spagnolo è molto più semplice della nostra: noi abbiamo 262mila fonti di spesa. In quanto ai risultati dell'economia spagnola, volgerei lo sguardo ai loro costi dell'elettricità, realizzata per quasi i due terzi da fonti rinnovabili e dal nucleare con costi molto più bassi dei nostri».
Però lo scarto nel 2024 fra Italia e Spagna è impressionante.
«Invito a guardare il bicchiere mezzo pieno: in Italia la disoccupazione è ai minimi dai primi anni Settanta. Qualche merito lo avremo anche noi, no?»
Nell'aria c'è una minaccia che potrebbe peggiorare il quadro: i dazi di Trump.
«Oggi ho incontrato un gruppo di studenti che mi chiedevano che ne pensassi. Ho risposto che Trump ha una lunga storia di uomo di business. L'istinto a trattare non va sempre valutato in modo negativo».
La vicenda con il Messico e il Canada dimostra che i dazi possono essere uno strumento per discutere d'altro. Secondo lei Trump cosa vuole dall'Europa?
«Sarebbe un peccato di vanità mettermi nei suoi panni. Ma posso avanzare l'ipotesi che la nuova amministrazione ritenga di aver contribuito alla politica di difesa europea più di quel che sarebbe logico fare, e dunque si aspetta una maggiore autonomia dell'Unione. E poi c'è il tema delle forniture di gas».
Lei pensa che Trump possa adottare una strategia da dividi et impera dei singoli Paesi dell'Unione?
«Trump per l'Europa è un'opportunità, perché ci costringerà a rispondere con altrettanta forza e rapidità. La cosa importante è presentarsi con una politica industriale e commerciale comune. Ma ci vorrà anche un po' di tattica, per le ragioni che le dicevo prima: in questo senso Trump è un politico anomalo».
È molto ottimista.
«Più che ottimista mi reputo un realista. Non è la prima volta che i rapporti fra Europa e Stati Uniti si fanno tesi. E' accaduto in circostanze persino più drammatiche delle attuali: è accaduto con la guerra in Vietnam, l'invasione dell'Iraq. Facciamo una valutazione fredda della situazione, e domandiamoci quali siano i presupposti di questa guerra annunciata».
Ovvero?
«Vero è che gli Stati Uniti hanno un'importante passivo commerciale, ma hanno anche un forte attivo sul lato dei servizi. Lo stock degli investimenti americani nell'Unione Europea è quattro volte quello della regione asiatica. E a loro volta gli investimenti europei negli Stati Uniti sono dieci volte quelli di Cina e India insieme».
Insomma, sta dicendo che a Trump la guerra con l'Europa non conviene. In ogni caso con lui occorrerà trattare. Pensa debba essere Ursula von der Leyen o Giorgia Meloni?
«Penso che ciascuna delle due debba esercitare il proprio ruolo. L'unico errore da non fare lo dico all'opposizione - è temere che la premier possa svolgerlo, un ruolo».
(intervista di Alessandro Barbera, La Stampa)
PNRR , Piano nazionale di ripresa e resilienza , Donald Trump